IL PRETORE
    Nel giudizio civile 7966/89, promosso dinanzi la pretura di Torino
 dalla ditta f.lli Ceresa contro  Vaccaro  Antonino  per  ottenere  il
 risarcimento  del danno conseguente al sinistro stradale verificatosi
 il 17 gennaio 1989, il pretore,  all'udienza  del  6  dicembre  1989,
 prima  di  assumere  la  causa  a  sentenza,  si riservava, per poter
 promuovere  d'ufficio  la  questione   di   incostituzionalita'   del
 combinato disposto degli artt. 128, 275 e 276 del c.p.c., nella parte
 in cui non prevede che il giudice, dopo la redazione della  sentenza,
 legga il dispositivo in pubblica udienza per i seguenti rilievi:
    1. - Contrasto con l'art. 101 della Costituzione.
    Secondo  quanto  ha statuito questa Corte costituzionale (sentenza
 97/1986 n. 212, ordinanza 21 marzo 1988, n. 738, sentenza 16 febbraio
 1989,  n.  50)  il  principio  della  pubblicita'  delle  udienze e',
 costituzionalmente, garantito dall'art. 101 della Costituzione, quale
 conseguenza   necessaria   del   fondamento   democrtico  del  potere
 giurisdizionale.
    Tale  principio,  come afferma questa Corte nelle citate sentenze,
 e' presente non solo nell'ordinamento italiano, ma anche in  numerose
 convenzioni  internazionali,  quali  la  Convenzione  europea  per la
 salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
 firmata a Roma il 4 novembre 1950 (art 6), il Patto internazionale di
 New York, adottato il 16 dicembre 1966 (art. 14), i protocolli  sullo
 statuto  della  Corte  di  giustizia annessi ai trattati CECA, CEE ed
 EURATOM (rispettivamente artt. 28 e 29).
    Se, come pacificamente si ritiene in dottrina e giurisprudenza, la
 pubblicita' delle udienze garantisce  la  trasparenza  dell'esercizio
 del  potere  giurisdizionale  e consente ai cittadini il controllo su
 tale attivita', appare conseguenziale, a questo giudice a quo, che il
 modo  piu'  significativo,  per  rendete  operativa  questa  forma di
 controllo, e' l'affermazione del dovere del giudice, che ha compilato
 la sentenza, di leggerne il dispositivo di udienza.
    Nel  processo  civile  di  primo  grado,  dove  e'  pubblica  solo
 l'udienza di discussione (artt. 84 delle disp. att.  del  c.p.c.)  il
 principio  della pubblicita' delle udienze, e quindi del controllo da
 parte dei cittadini sull'esercizio del potere giurisdizionale, appare
 essere un sacco vuoto se i destinatari del potere giurisdizionale non
 abbiano la coscienza e percezione immediata  e  diretta  in  pubblica
 udienza  dell'atto  piu'  rappresentativo della funzione giudiziaria,
 cioe' della sentenza, nonche' della certezza che tale statuizione non
 potra' essere piu' modificata se non in sede di gravame.
    2. - Contrasto con l'art. 10, primo comma, della Costituzione.
    Appare  a questo giudice a quo che il processo cognitivo ordinario
 di primo grado non sia stato tutt'ora adeguato, dal legislatore, alla
 norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, che impone
 al giudice che ha redatto la sentenza il dovere di  renderla  publica
 in  pubblica  udienza  (questa esigenza non e' stata nemmeno recepita
 nel disegno di legge di miniriforma del codice di procedura civile n.
 1288/S/X il Foro it. 88,V,325).
    L'art.  14  del  Patto  internazionale  di  New  York, relativo ai
 diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e  ratificato
 con  legge  25 ottobre 1977, n. 881, nel prevedere che "... qualsiasi
 sentenza pronunciata in giudizio penale e civile dovra'  essere  resa
 pubblica..."  appare sancire, nel suo contesto che il giudice, che ha
 pronunziato  la  sentenza  penale  o  civile,  la  rendera'  pubblica
 immediatamente e non quando lo riterra' opportuno.
    Piu'  chiaramente,  nel  senso dell'adozione del citato principio,
 l'art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti  dell'uomo
 e  delle  liberta'  fondamentali  firmata a Roma il 4 novembre 1950 e
 ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, prevede testualmente  che
 "...  la  sentenza  deve  essere  pronunziata pubblicamente..." nella
 versione inglese "... judgment shall be pronunced publicly...", nella
 versione  francese "... le jugement doit etre rendu publiquement...".
    E'  sintomatico  ai fini dell'affermazione del citato principio di
 diritto internazionale che le citate disposizioni si riferiscono,  in
 egual  misura,  ai  processi  penali  (dove  il  principio  non e' in
 discussione) e civili.
    Ancor  piu'  chiaramente,  ai  fini  del  recepimento  del  citato
 principio nel diritto inernazionale, l'art. 31 del  protocollo  sullo
 statuto della Corte di giustizia, annesso al Trattato CEE, ratificato
 con legge 25 giugno 1952, n.  766,  sancisce  che  "les  arrets  sont
 signe's par le president, le juge rapporteur et le graffier, ils sont
 lus en seance publique".
    Non pare a questo giudice a quo che si possa dubitare che si e' in
 presenza di un principio di diritto internazionale  (che  costituisce
 una  garanzia  per  i  destinatari del servizio-giustizia) secondo il
 quale una sentenza, una volta formata, dopo una pubblica udienza  non
 puo'  restare  un  segreto  del  giudice  e  della cancelleria, ma va
 esternata in pubblica udienza.
    3. - Contrasto con l'art. 97, primo comma, della Costituzione.
    Secondo  quanto  ha  statuito questa Corte costituzionale (sent. 7
 maggio 1982, n. 86, in Foro it. 82, I, 1497, sentenza 19 gennaio 1989
 n. 18, id. 89,I,305) l'art. 97 della Costituzione nello stabilire che
 i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di  legge  in
 modo  che  sia assicurato il buon andamento dell'amministrazione, non
 ha inteso riferirsi ai soli organi della pubblica amministrazione  in
 senso   stretto,  ma  anche  agli  organi  dell'amministrazone  della
 giustizia.
    Appare a questo giudice che il combinato disposto degli artt. 128,
 275  e  276  del  c.p.c.,  nel  testo  attualmente  vigente,   incida
 negativamente sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia
 civile.
    Appare,  innanzitutto  irragionevole  e  tale da creare un inutile
 ritardo nella conoscenza della statuizione del giudice, l'imposizione
 al  giudice del dovere di stilare il dispositivo della sentenza (art.
 276, ultimo comma, del c.p.c.),  subito  dopo  la  discussione  delle
 parti  (artt.  128 e 275 del c.p.c.), senza il conseguenziale obbligo
 di pronunziare il dispositivo in  pubblica  udienza.  Fatto  sta  che
 attualmente  la  sentenza pronunciata, e potrebbe essere un'ordinanza
 di approfondimento istruttorio (art. 281 del c.p.c. (finisce  in  una
 sorta  di  limbo  e  viene  resa  publica  in  tempi  non agevolmente
 controllabili per le stesse parti del procedimento.
    Le  statistiche  sul  tempo di definizione dei processi civili non
 tengono conto dei tempi medi (che sono da ritenere anch'essi  lunghi)
 che  passano  dall'udienza  di  discussione  alla comunicazione della
 publicazione della sentenza, quando sarebbe  molto  piu'  semplice  e
 trasparente  per  gli  operatori della giustizia e per i fruitori del
 servizio, conoscere subito la statuizione del caso concreto.
    L'esigenza  pubblicistica, cui risponde la lettura del dispositivo
 in udienza,  di  ancorare  il  momento  dell'immodificabilita'  della
 decisione  alla  data  dell'udienza,  resa  esplicita  solo in taluni
 procedimenti speciali civili come nell'art.  429  del  c.p.c.  (Cass.
 sez.  un.  22 giugno 1977, n. 2632, in Foro it. 77,I,1638 par. 6, per
 il procedimento del lavoro, Cass. 14 luglio 1983, n. 4884,  in  Arch.
 Loc.  e  Cond. 83, 685, per i procedimenti locatizi che si richiamano
 all'art. 429 del c.p.c.) e nell'art. 23 della legge 24 novembre 1981,
 n.  689 (Cass. 3 novembre 1988, n. 5945, in Foro it. 89,I,760) appare
 essere   implicita   nel   combinato   oggetto   del   giudizio    di
 incostituzionalita'  demandato  a questa Corte, in quanto il giudice,
 dopo la formazione del disposito ai sensi dell'art.  276  del  c.p.c.
 non puo' piu' comunque modificare la sua decisione.
    La seconda esigenza, individuata dalla citata giurisprudenza della
 Corte di cassazione, cui  risponde  la  lettura  del  dispositivo  in
 udienza  per  alcuni  procedimenti  speciali civili, che e' quella di
 dare sollecita definizione alla controversia,  deve,  secondo  questo
 giudice,  essere  prerogativa  del  procedimento speciale prima della
 decisione, ma a decisione presa, nei  procedimenti  civili  ordinari,
 (al pari di quelli speciali), non va mantenuto, un illogico intralcio
 alla immediata conoscenza  della  stessa  rimandando  ad  un  secondo
 momento la comunicazione della sentenza.
    La   conoscenza   immediata   della  decisione,  anche  quando  il
 dispositivo non e' titolo esecutivo (nel caso dell'art. 431,  secondo
 comma, del c.p.c.) si sposa con il principio di buona amministrazione
 della giustizia dando subito la possibilita' alle parti di  adeguarsi
 alla statuizione.
    Sulla   rilevanza   della   questione  che  si  sottopone  in  via
 incidentale a questa Corte, il giudice a quo non puo' che ripetere le
 stesse considerazioni di questa Corte di sentenza 19 gennaio 1989, n.
 18 (in Foro it. 89,I,305) "L'art. 23 della legge 11  marzo  1953,  n.
 87,  stabilendo  che la questione di costituzionalita' proposta debba
 essere   tale   che   il   giudizio   non   possa   essere   definito
 indipendentemente  dalla risoluzione di essa, implica, di regola, che
 la rilevanza  sia  strettamente  correlata  all'applicabilita'  della
 norma  impugnata  nel  giudizio a quo. Tuttavia, come questa Corte ha
 gia'  esplicitamente  ritenuto  in  altre   occasioni   (cfr.   Corte
 costituzionale  24  novembre  1982, n. 196; 4 luglio 1977, n. 125; 15
 maggio 1974, n. 128), debbono ritenersi influenti sul giudizio  anche
 le norme che, pur non essendo direttamente applicabili nel giudizio a
 quo, attengono  allo  status  del  giudice,  alla  sua  composizione,
 nonche'  in generale alle garanzie ed ai doveri che riguardano il suo
 operare. L'eventuale incostituzionalita' di tali norme  e'  destinata
 ad influire su ciascun processo pendente davanti al giudice del quale
 regolano lo status, la composizione, le  garanzie  ed  i  doveri:  in
 sintesi,  la  protezione  dell'esercizio della funzione nella quale i
 doveri si accompagnano ai diritti.
    Non  crede questo giudice a quo che si possa negare che la lettura
 del dispositivo in udienza attenga alle garanzie  ed  ai  doveri  che
 riguardano il suo operare.
    Il  pretore,  pertanto,  ritiene  di  dover  rimettere, d'ufficio,
 l'esame della questione che non appare  manifestamente  infondata,  e
 che comunque puo' incidere sulla decisione della lite sottoposta alla
 sua cognizione,  in  riferimento  agli  artt.  101,  10  e  97  della
 Costituzione,  di  incostituzionalita'  del  combinato disposto degli
 artt. 128, 275 e 276 del c.p.c., nella parte in cui non  prevede  che
 il presidente legge il dispositivo della sentenza in udienza.